Ricordando la cara amica Marina

Il 10 aprile 2016 ci ha lasciati Marina Sangiorgi, per tanti anni collaboratrice e socia di Alecrim. Amica e volontaria di Study for you, giusto un anno fa ci fece dono ancora di tre pomeriggi manifestando tutta l’intenzione di riprendere l’attività di aiuto allo studio. Passata l’estate questo poi non fu possibile, perché crebbe il tempo da dedicare a quella malattia che se l’è portata via.

Vogliamo ricordarla qui proprio in punta di penna, ripubblicando l’articolo da lei scritto per il nostro sito dopo la visita fatta assieme nel dicembre 2011 a Pesaro per incontrare L’Imprevisto.

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A PESARO per incontrare L’Imprevisto

Il 17 dicembre scorso un gruppo di volontari ha avuto la possibilità di incontrare un gruppo di ragazze della comunità fondata a Pesaro da Silvio Cattarina. Eccone un breve resoconto.

Un imprevisto è la sola speranza

di Marina Sangiorgi

La comunità terapeutica educativa per minori deviati e tossicodipendenti L’Imprevisto nasce a Pesaro nel 1990, per iniziativa di Silvio Cattarina, che già da anni lavorava in centri per il recupero dei tossicodipendenti. Attualmente L’Imprevisto comprende una comunità maschile, una femminile, Tingolo per tutti, case di reinserimento maschili e femminili per ragazzi usciti con successo dal percorso in comunità, un centro diurno per minori a rischio, Lucignolo, e una cooperativa sociale, Più in là, con due laboratori artigianali, uno di falegnameria e uno per la fabbricazione di pannelli antirumore.

L’incontro avvenuto il 17 dicembre 2011 a Pesaro presso la comunità femminile il Tingolo è stata l’occasione per scoprire la ricchezza d’esperienza di persone particolarmente ferite dalla vita, e per confrontarci con operatori che si mettono alla prova in un lavoro difficile e stimolante.

Abbiamo incontrato la responsabile della comunità femminile Grazia De Cecco, uno degli operatori della comunità maschile, Alessandro Di Carlo, e alcune ragazze. S., ventisei anni, ha di recente concluso il percorso. A. vive in casa di reinserimento. Silvia è in comunità da quattro mesi. I., di nazionalità marocchina, è in comunità per problemi non legati alla tossicodipendenza. B., diciannove anni, è in comunità da un mese.

S. racconta che ha cominciato a tredici anni a fare uso di sostanze. Nella sua ricerca di esperienze sempre più forti è arrivata all’eroina. È entrata al Tingolo su suggerimento degli assistenti sociali e di sua madre, che pure si drogava e ha deciso di cambiare vita, entrando in una comunità per disintossicarsi. La comunità per S. è stato un cammino difficile (è scappata cinque volte), ma che l’ha fatta rinascere, le ha fatto scoprire chi è lei veramente e il valore che ha. Ora lavora in un bar e da gennaio 2012 entrerà nella casa di reinserimento. S. ha iniziato quattro anni fa a drogarsi in seguito a un episodio di violenza. In comunità ha trovato l’abbraccio forte di una famiglia che le vuole bene. B. pure ha cominciato a drogarsi a dodici, tredici anni. Suo padre era scappato di casa, sua madre soffriva di depressione. B. si occupava della casa, della sorella più piccola, i pesi che si era accollata l’hanno spinta a rifugiarsi nella droga, fino all’eroina, per annientare tutte le emozioni. Infine, spinta dal suo ragazzo e dalla dottoressa che la seguiva al Sert, è entrata nella comunità. L’accoglienza delle altre sedici ragazze, che la aspettavano, le ha fatto sentire un calore immenso. In questo mese di permanenza in comunità ha capito che deve cambiare tanto, tanto deve imparare, ma percepisce un grande affetto, che la sostiene. I. racconta che nella malattia la comunità le è stata molto vicina. Gli operatori e le ragazze hanno riempito il vuoto della mancanza dei suoi genitori.

La responsabile Grazia interviene dicendo che la disciplina richiesta alle ragazze è dura. Ogni particolare è importante: è richiesto un certo modo di vestirsi, di comportarsi, di camminare, di stare seduti. Devono chiedere tutto agli operatori, per imparare da subito la domanda e la dipendenza. La giornata si svolge secondo orari precisi. Alle 7.30 la sveglia, alle 8 la colazione. Quindi vengono assegnati i lavori. A turno tutte svolgono i lavori in cucina, lavanderia, stireria e dispensa. Ci sono due assemblee al giorno. Ogni giorno vengono lette “le ricevute”: le mancanze, anche minime, come aver lasciato un pacchetto di sigarette in giro. Ci sono poi le attività di svago: le ragazze scrivono un giornalino mensile che racconta gli eventi più significativi di entrambe le comunità. Ci sono corsi di lettura ad alta voce, che approdano a spettacoli. È stato messo in scena l’atto terzo dell’Amleto, dai ragazzi, le ragazze hanno fatto una lettura pubblica di Alda Merini, i ragazzi hanno letto Buzzati. Due volte alla settimana per le ragazze c’è la possibilità di giocare a pallavolo.

Dopo un periodo di inserimento in comunità, della durata variabile a seconda dei percorsi personali, i ragazzi e le ragazze possono uscire ogni giorno per andare a scuola o al lavoro.

A. racconta che viveva per strada col suo cane. Arrivata in comunità per i primi otto mesi non ha parlato. Quando le è morto il cane è scappata. Una volta tornata una delle operatrici le ha parlato, le ha detto tutto quello che stava provando: c’era qualcuno in grado di guardarla e di comprenderla. Viveva spezzata, ora ha unito tutto: ragione, istinto e cuore. Lavora, vive in casa di reinserimento con altre tre ragazze, e il legame con la comunità è fortissimo, rimane per sempre. Infatti Grazia aggiunge che ormai è A. a chiederle come sta, perché è nato un rapporto di amicizia forte e stabile. Grazia, sollecitata a raccontare della sua esperienza, ci dice che il lavoro educativo consiste nel lasciarsi investire dall’altro. Grazia è psicologa, ma è ben consapevole che la sua competenza è solo uno strumento tra gli altri. Il compito dell’educatore è comunicare quello che si è. I ragazzi per prima cosa guardano a chi hanno di fronte, solo in seconda battuta si interessano a quello che viene loro proposto. Ogni giorno bisogna aspettarsi qualcosa di grande, ogni giorno è fatto di ore e di fatti, ogni giorno è una grande attesa. Se si attende, non c’è dubbio, qualcosa arriva, anche le cose più impreviste, come un dieci in matematica.

Una delle nostre amiche fa una domanda molto provocatoria: non c’è il rischio che si sostituisca la dipendenza dalla droga con la dipendenza dalla comunità? Grazia risponde che la dipendenza è una condizione umana inevitabile. L’importante è essere all’altezza del proprio desiderio, valutare da cosa far dipendere la propria vita. A. dà una risposta chiara: afferma che dipende solo da Dio, e da quello che Dio le ha dato, le persone della comunità.

Interviene Dicio (Di Carlo): la comunità è un luogo difficile, faticoso, ai ragazzi e alle ragazze viene chiesto di sacrificarsi. Arrivano con una menzogna dentro, e devono scarnificarsi fino ad arrivare alla verità. Gli operatori hanno la fortuna di avere degli amici che li aiutano. La comunità è un luogo di lavoro, di vita attiva che come un pungolo vuole mettere in moto, e far cercare la risposta alla domanda di senso che muove questi ragazzi, che li ha spinti su strade sbagliate, ma che è da valorizzare, è il punto da cui partire, per chi si è drogato, per chi non l’ha mai fatto: come posso essere felice oggi?

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Nota di redazione: Abbiamo deciso di pubblicare il testo riportando le sole iniziali dei nomi delle ragazze incontrate. Ci scusiamo con chi ritenesse sbagliata questa meditata scelta redazionale, di certo lontana dalla completa apertura, trasparenza e sincerità vissuta in quell’incontro.